Possiamo fare tutto senza poi far nulla, alla fin fine, ma quel che faremo, dove andremo, cosa saremo, lo sa, e magari neanche troppo bene, solo il narratore che sta prendendo sempre più corpo, anche se, molti rimarranno delusi, non si scomoderà a descriversi, né a dirci il suo nome, né a collocarsi in un tempo o in uno spazio; no, comincerà semplicemente a raccontarci delle cose, e proseguirà un po' alla cieca, come chi percorre un sentiero sconosciuto senza sapere dove lo condurrà, né volendolo in fondo sapere.
Ecco, ora ha due piedi che camminano, e se ha due piedi deve anche avere il resto del corpo, e una testa pensante, ed è quindi pronto per la metamorfosi: cessa di essere una creatura astratta e diventa qualcuno: io. Adesso sono io che vi parlo, e non illudetevi, perché anch'io sono fatto della stessa sostanza di cui è fatto il mio predecessore, il quale, non si sa mai, potrebbe anche seguirmi. Non è una notte buia e tempestosa; non è una luminosa mattina di primavera, non fa caldo né freddo, non ci sono cielo né terra, né pioggia né sole, c'è solo un vuoto silenzioso di colore indefinibile che va riempito con delle storie. Storie che mi allontanino il più possibile da me stesso. Potrei confessarvi di essere a corto di idee e non mentirei, ma nemmeno sarei del tutto sincero, perché qualche idea ce l'ho e sto cercando di metterla a fuoco, ma per riuscirci devo entrare nella pelle di chi vive e ha vissuto nel mondo reale e ha qualcosa da dire. E allora, non devo far altro che sparire e lasciar spazio a qualcun altro. In queste tre paginette scarse ho già disquisito troppo, per i miei gusti, e forse anche per i vostri.

A tal proposito, tra le varie recensioni lette sul tuo ultimo romanzo, che verità ti senti di esprimere che ancora non è stata affermata a riguardo sul libro?
Una verità che è emersa nel corso della recentissima presentazione a Urbino e che nemmeno io avevo percepito o voluto ammettere: in questo mio ultimo romanzo, diverso, per scelta, da tutti i precedenti, c'è molto più di me di quanto non mi fossi prefissato di lasciar trasparire. Mi spiego meglio: alla classica domanda "Quanto c'è di autobiografico nel tuo romanzo?" ho risposto: poco o nulla. Non amo l'autobiografismo in genere, mi piace inventare, uscire da me stesso, divagare, raccontare ciò che non ho visto né vissuto come se l'avessi visto e vissuto. A meno che uno non sia Primo Levi, che è stato ad Auschwitz, o Ian Fleming, che è stato un agente del servizio segreto britannico, o Dashiell Hammett, che è stato un agente della Pinkerton, la tua esistenza borghese e spesso noiosa difficilmente potrà offriti degli spunti per costruire storie avvincenti e avventurose. Ma in realtà le cose sono un po' più sfumate: se prendiamo in esame il concetto di autobiografismo tradizionale, inteso come cronaca delle tue memorie tali e quali, be', allora sì, l'autobiografia non mi interessa; ma se invece mettiamo da parte quest'idea mainstream e pensiamo all'autobiografia come a una rielaborazione delle tue esperienze, in particolare quelle della cosiddetta "vita interiore", ecco che l'autobiografico emerge quasi spontaneamente dalla scrittura, che tu lo voglia o no. Non ho mai vissuto le situazioni in cui si trovano i personaggi del mio romanzo, altrimenti sarei un assassino o, peggio ancora, morto. Ciononostante, tutti questi personaggi hanno qualcosa di me, sono frammenti del mio io pensante e senziente che ho scomposto quasi all'infinito. Quando i miei personaggi amano, muoiono o uccidono, una parte di me, la più recondita, ama, muore e uccide con loro. Ho letto, da qualche parte, non ricordo esattamente dove, che nel momento in cui si rielaborano le proprie esperienze di vita nella finzione letteraria, queste esperienze si vivono più intensamente e "realmente" di quanto non si riescano a vivere nella realtà.
Mi parli della tua formazione, avendo pubblicato anche con prestigiosissime case quali Mondadori, incoraggiando così un neofita della scrittura qualora desiderasse una carriera come la tua?
Chiunque leggesse il mio curriculum vitae penserebbe che ho una formazione canonica fin troppo regolare: diploma di maturità scientifica, diploma in fotografia, Laurea magistrale in Lingue Straniere e Studi Interculturali con il massimo dei voti, master in traduzione editoriale, competenze in lingua straniera livello C2, eccetera, eccetera, eccetera. Ma non è così. La mia storia formativa è quanto di più atipico e irregolare possa esserci. Innanzitutto, agli studi accademici ci sono arrivato tardi: quando mi sono iscritto all'università avevo già passato da tempo i trent'anni. I compagni di corso, abbondantemente più giovani di me, mi guardavano come se fossi un dinosauro catapultato nel presente. Dai venti ai trentacinque anni ho svolto diversi lavori, molti dei quali umili e poco gratificanti, ho girato l'Italia e, per quanto possibile, l'Europa. Quando ho iniziato l'università avevo già un bagaglio di conoscenze notevole, anche in ambito linguistico: le mie lingue di specialità, inglese e spagnolo, le ho imparate da autodidatta, e anche bene, tant'è vero che gli studi universitari non mi hanno creato nessuna difficoltà. Ecco, questa è la storia della mia istruzione ufficiale. Ma la formazione è qualcosa di diverso, bisogna fare un distinguo. La formazione, intesa in senso non scolastico, è tutto ciò che ti forgia, che ti arricchisce intellettualmente, che ti fa crescere, che ti rende più consapevole, e non è detto che debba necessariamente afferire all'ambito dell'istruzione. Certo, studiare è importante, avere dei titoli è importante, soprattutto nel mondo del lavoro di oggi, dove vieni valutato, spesso superficialmente, in base alle varie etichette e tagliandi che ti sei volenterosamente appiccicato addosso. Ma la formazione, le cose che sai e che sai fare, sono tutt'altro. Ci sono persone che vantano titoloni la cui ignoranza è abissale; di contro, ci sono persone poco istruite con un'enorme cultura: Giorgio Scerbanenco, ad esempio, non aveva nemmeno la quinta elementare, ma scriveva da Dio. L'ideale, chiaramente, sarebbe coniugare una buona istruzione a una buona cultura effettiva.
Per quanto concerne le mie pubblicazioni con Mondadori, sia come autore sia come traduttore, non sono tantissime, almeno per il momento. E stiamo comunque parlando di collane da edicola ritenute, magari a torto, minori, con una vita effimera. Ciò non toglie che mi abbiano fatto sentire gratificato; per questo continuerò e ne seguiranno altre, di pubblicazioni simili. Ma se dovessi incoraggiare un neofita di certo non gli porterei ad esempio una carriera come la mia. Non ora, almeno. Sono ben lontano dall'essere riconosciuto, non vendo caterve di copie e non ho mai vinto un premio letterario, per quanto possano contare i premi letterari. Chiunque voglia dedicarsi alla scrittura e alla traduzione letteraria – che poi è una riscrittura – nell'Italia odierna, deve mettere in conto delusioni e disillusioni, dev'essere preparato a mandar giù un bel po' di bocconi amari. Trovare nuove collaborazioni dignitose è sempre più difficile, anche perché il sistema editoriale, diciamocelo con franchezza, non è che sia tanto meritocratico. Comunque, vediamo dove sarò tra dieci anni. E allora sì, magari, che potrò incoraggiare un neofita con una carriera come la mia.
Per intenderci, quanto leggi e quanto studi al giorno?
Abbastanza, quel che mi serve in un dato momento. Va da sé che amo i libri e la lettura, perché non c'è scrittore che non sia anche lettore. Tutti gli scrittori discendono da un'unica stirpe di lettori, la differenziazione avviene in seguito: alcuni rimangono lettori, altri diventano scrittori. Poi dipende dal periodo, dal tempo che ho a disposizione, dalle energie, dalle motivazioni contingenti. Se devo fare ricerche per una traduzione o un romanzo posso lavorarci anche dalla mattina alla sera, ma a un certo punto, quando decido di staccare, stacco. Come diceva qualcuno in una vecchia trasmissione tv: "Big Ben ha detto stop."
Vale sempre il detto ‘mens sana in corpore sano’ o credi anche che talvolta la convivialità e un buon calice possano stimolare una buona creatività nello scrivere? O forse un mix tra i due?
Assolutamente sì, vale sempre, almeno per me. Intendiamoci: niente "body shaming", come si usa dire oggi. Ci sono menti brillanti che abitano corpi disfatti, ma anche menti disfatte che abitano corpi impeccabili. Per quanto mi riguarda, però, il concetto di "allenamento" è valido sia in ambito fisico sia in ambito letterario. Così come un corpo necessita di esercizio ginnico per restare in forma, anche l'abilità nello scrivere e nel tradurre vanno regolarmente esercitate, altrimenti, a lungo andare, si perdono. Un esempio concreto: quando vado a correre, magari in salita, o quando mi alleno duramente in palestra, e mi sento sfinito, e penso "non ne posso più, ma chi me lo fa fare", è lì che scatta qualcosa, una vocina interiore che sussurra "adesso vediamo se molli, vediamo di che pasta sei fatto"; ed è in quel preciso momento che apprezzo il valore del sacrificio, del resistere, della fatica che porta a qualcosa di buono. Ecco, tutto questo si può – anzi vorrei dire si deve – traslare anche in un contesto letterario-intellettuale. Ti dirò di più: molte trovate per i romanzi mi sono venute in mente mentre facevo jogging, o nuotavo, o facevo trazioni alla sbarra nel classico workout calistenico all'aperto, magari osservano il mare o una collina ricoperta di alberi.
Non fumo, sto il più possibile lontano dagli alcolici, non amo la pazza folla, ma ogni tanto so apprezzare il buon calice, o il buon boccale, e la convivialità – con la gente giusta, ovviamente.
Citerò un personaggio che amo tantissimo: Clark Kent, l'alter ego umano di Superman, ma non perché io mi senta Superman, semmai è il contrario. Gli altri mi vedono come il Superman muscoloso in costume, ma io mi sento Clark Kent, nella vita. Clark Kent è una metafora dello straordinario che si cela dietro l'ordinario. Tutti lo trattano con sussiego, lo considerano l'ultima ruota del carro, un uomo senza spiccate qualità. E invece Clark Kent nasconde un essere dai poteri straordinari, anche se quasi nessuno li vede. Ecco, io mi sento Clark Kent che ha dentro un supereroe perlopiù invisibile che però viene fuori quando c'è bisogno di lui.
Nello specifico, senza svelare troppo, di cosa parla il tuo romanzo?
È un noir metaletterario in cui mi sono divertito a ibridare vari generi: giallo whodunnit, thriller, narrazione distopica. È una finzione letteraria che spiega sé stessa, i suoi meccanismi, ma non lo fa in maniera tradizionale, accademica: no, si spiega creativamente, attraverso le sue stesse finzioni. Lo so, fa molto Borges. La storia ha una struttura narrativa particolare, quasi unica. Tre racconti che si sviluppano in tre dimensioni parallele, diciamo, che però, a differenza di quanto accade per le rette parallele che non s'incontrano mai, possono incontrarsi in alcuni punti o "varchi" che l'autore ha predisposto per il lettore, il quale ha facoltà di scegliere se passare da una storia all'altra. I tre protagonisti sono tre scrittori, o meglio, tre diverse declinazioni dell'essere scrittore: c'è l'autore in crisi, di scarso successo; c'è l'autore affermato e fiero di sé, fin troppo; c'è l'autore prigioniero che non può far sentire la sua voce. Questi scrittori, a loro volta, parlano di altri scrittori, e così via, come in un gioco di scatole cinesi. "Gioco" è effettivamente una parola chiave: qualcuno ha definito questo mio romanzo un "libro-game", e mi sta bene. Ma attenzione: il gioco è una cosa seria, il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale. E come dicevo poc'anzi, in questo labirinto di finzioni, sotto l'involucro della narrativa di genere, c'è tanta della mia realtà, tanto dolore, tanti spunti di riflessione su tematiche tabù del mondo reale: la solitudine, soprattutto quella che provi in mezzo alla gente, la frustrazione del fallimento, l'incapacità di innamorarsi davvero, al di là della semplice attrazione fisico-sessuale. Potrei dire che questo romanzo è autobiografico nel senso che è una summa di molti libri che ho letto, dei film che ho visto, dei quadri che mi piacciono, della musica che ascolto. Il tutto sotto l'egida della morte, altro tema tabù. Il titolo, Hai tutta la morte davanti, è volutamente provocatorio e rimanda a un verso di una poesia di Nicanor Parra, "L'antilazzaro". La morte, ammettiamolo, è più forte di noi, non siamo ancora riusciti a sconfiggerla né mai ci riusciremo. La promessa che le diverse religioni umane hanno in comune, ovvero la "vita eterna", in una rilettura capovolta, diventa tutta la morte che abbiamo davanti dopo la morte.
Dove scrivi, hai uno studio, una stanza, un pensatoio?
Ho una camera da letto quadrata, abbastanza spaziosa, divisa a metà da una diagonale immaginaria, a formare due triangoli rettangoli adiacenti e di uguali dimensioni. Nella prima metà ci dormo e ci sogno, nella seconda ci scrivo e ci leggo. Ho una scrivania angolare-curvilinea che sembra la plancia di comando dell'Enterprise. I libri li tengo un po' in questa camera da letto-studio un po' in salotto.
Hai qualche rituale per essere creativo?
No, a dire il vero. Nessun rituale. Solo tanta concentrazione. Quando scrivo ignoro i contatti con il mondo esterno: tv, cellulare, social e così via. Al massimo un po' di musica in sottofondo a basso volume – la musica giusta, sia chiaro. Una volta superata la "barriera di attivazione", volendo usufruire di una metafora chimica, ossia compiuto lo sforzo intellettuale che ti permette di passare dal mondo reale a quello della finzione, non mi servono rituali specifici.
Chi o cosa ti dà più fastidio?
Chi non rispetta il mio lavoro e mi prende poco sul serio. Chi critica a priori senza aver mai letto una riga di ciò che scrivo o traduco. I superficiali senza cultura che giudicano per partito preso. E ce ne sono, ah se ce ne sono. Anche vicino a te, là dove mai ti aspetteresti di trovarli.
En fin, il tuo life motto per il 2022.
Quello di sempre: "Duro e puro".